Il triangolo industriale di Pietrarsa: storie di record e primati dimenticati.

Il triangolo industriale di Pietrarsa: storie di record e primati dimenticati.

Nel periodo di massimo sviluppo il polo industriale di Pietrarsa dava lavoro, compreso l’indotto, a settemila persone.

Oggi sembra difficile crederci, visto il perdurante stato d’eterna crisi del mezzogiorno, ma nel 1860, il Regno delle Due Sicilie, era un paese assai prospero e per certi versi sviluppato: una lunga pace ed un florido commercio marittimo favorirono il fiorire di una miriade di piccole aziende artigianali e piccole industrie che costituirono un tessuto economico molto vivace imprimendo al regno, uno sviluppo sostenuto e duraturo. Le industrie meridionali erano talmente efficienti e produttive da guadagnarsi, nel 1856, alla conferenza internazionale di Parigi, il riconoscimento – per il Regno delle due Sicilie – di terzo paese al mondo, per lo sviluppo industriale raggiunto dopo Francia e Inghilterra.

Il fiore all’occhiello della capitale partenopea era costituito da un centinaio d’industrie metalmeccaniche,    di cui 15 avevano più di 100 addetti e solo 6 più di 500. Da Portici, proseguendo per l’intero golfo fino a Castellammare era tutto un susseguirsi di cantieri e opifici che davano lavoro a tutta Napoli. La disoccupazione nella capitale del regno si attestava, infatti, su livelli marginali.

La principale industria era sorta a Pietrarsa, estesa su 34 mila metri quadri, l’unica capace di costruire motrici navali e ferroviarie complete di locomotive, vagoni, carrozze, binari e tutto il necessario per la creazione di una moderna strada ferrata. Disponeva anche, unico istituto del suo genere allora, della

Scuola degli alunni macchinisti” per la preparazione dei conduttori.

Nata nel 1840, tra Portici e S.Giovanni a Peduccio, precedeva di 44 anni la neocostituita Breda e di 57        la Fiat di Torino ma nel giro di un decennio divenne la più rinomata in Europa. I Savoia stessi, che fino     allora le locomotive le avevano sempre importate dall’Inghilterra, a metà dell’800, chiesero e ottennero      di poterla riprodurre in scala, senza pagare i diritti, fondando quello che fu il primo stabilimento metalmeccanico del regno di Sardegna, sulle orme del quale nacque, nel ’45 la futura Ansaldo di Genova, che ne ereditò i lavori divenendo presto sua acerrima concorrente.

La prima locomotiva italiana fu costruita a Pietrarsa nel 1836; nel 1846 arrivarono i primi ordinativi dal Regno di Sardegna, consegnate dal 1847 in poi e regolarmente pagate. Ad una riunione, tenutasi a Genova nel 1846, l’azienda vantava “… 30 locomotive già disponibili complete di macchinisti italiani capaci di condurle e pronte ad entrare in servizio…”.

Provenivano da Pietrarsa, la quasi totalità degli oggetti dell’industria metalmeccanica: torni, fucine, cesoie, gru, apparecchiature telegrafiche, pompe, laminati e trafilati, caldaie, cuscinetti, spinatrici, foratrici, affusti di cannone, granate e bombe.

Intorno a Pietrarsa si era lentamente concentrata tutta la tecnologia allora disponibile, si era costituito quello che oggi chiamiamo un polo tecnologico, un distretto industriale di fama, capace di realizzare autonomamente un po’di tutto, dalle reti ferroviarie alle motrici navali.

Contemporaneamente all’ombra di Pietrarsa si sviluppò un indotto di notevoli dimensioni come la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) specializzata nella produzione di materiali e macchine cardatrici per l’industria tessile e la Guppy attiva nella cantieristica e nei motori navali, entrambe con 600 dipendenti. Quest’ultima fabbricava, anche materiale rotabile per le ferrovie, oltre ai già citati prodotti per uso navale (guarnizioni, chiodi, viti, vernici). Uno dei suoi più noti progettisti, Giovanni Pattison, entrato in società con Guppy, progettò una locomotiva tecnologicamente avanzata per i tempi, in grado di superare pendenze fino al 2.5%, come nel tratto collinare Nocera-Cava e che si dimostrò il culmine del potenziale raggiunto dall’industria meccanica meridionale. La Guppy e la Pattison si specializzarono nella produzione di motori marini e di piccole navi, ricevettero diverse commesse dallo Stato italiano, ma la produzione altalenante, i ritardi nei pagamenti da parte della Marina e i periodi di scarse commesse le misero in seria difficoltà.

Fu proprio anche grazie ad esse, che Pietrarsa riuscì a soddisfare la corposa fornitura di 350 lampade, per    il comune di Napoli, che divenne così, la prima città ad essere illuminata a gas, la terza in Europa, dopo Londra e Parigi.

Alla proclamazione dell’unità, solo tre fabbriche erano in grado di produrre locomotive: Pietrarsa e Guppy a Napoli e l’Ansaldo a Genova, ma solo l’Ansaldo era considerata grande industria, pur disponendo di solo 480 operai contro i 1.050 di Pietrarsa. In quest’ultima 820 erano “artefici paesani” (disegnatori, modellatori, cesellatori, tornieri, limatori, montatori) e 230 “operai militari” militari distaccati presso le aziende ma stabilmente impiegati nella produzione, tanto che alloggiavano in un’apposita caserma all’interno dello stabilimento stesso.

Sviluppato anche il settore delle armi: trecento operai erano impiegati come fonditori, staffatori, fuochisti    e forgiatori dalla Real Fonderia di Castelnuovo (nella cinta fortificata del Maschio Angioino poi abbattuta) nella produzione di cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale. A Torre Annunziata operava dal 1759, fondata da Carlo di Borbone, un impianto metallurgico, la Real fabbrica d’Armi, attiva nella produzione di fucili e armi varie comprese alcune di lusso considerate tra le migliori d’Europa. L’Arsenale d’artiglieria e la fonderia, ubicati sempre nel fossato di Castelnuovo, l’opificio della Real montatura d’armi di Napoli. Le fabbriche svolsero un ruolo non secondario nell’ambito della produzione belligerante italiana; in particolare negli anni ’70 ed ’80 aumentarono di dimensione e incrementarono la produzione di affusti di cannoni e bocche da fuoco. Da queste fabbriche uscirono annualmente 11.000 armi da fuoco e 3000 da taglio. A Poggioreale venne costruita la carabine rigata sistema Minier calibro 18 mm. Già nel 1848 un brevetto allora registrato come “regia patente” proteggeva il “sistema Venditti” un meccanismo per pistole a ripetizione lunghe 32 cm. e calibro 10 mm. antecedente alla famosa “Smith & Wesson”, con proiettili conici di piombo e carica di polvere nera all’interno.

La cantieristica navale
Le Due Sicilie schieravano una flotta mercantile pari a 80% di quella posseduta dal regno italiano; considerata la quarta al mondo, ne facevano parte oltre 9800 bastimenti ed un centinaio di questi (inclusi quelli militari) erano a vapore. Il cantiere di Castellammare di Stabia, era il più grande del Mediterraneo, impiegava 1.600 operai, e disponeva del più lungo bacino di carenaggio in muratura: 75 metri.

Tra il ’18 e il ‘37, i cantieri vararono 486 bastimenti di vario tipo e tonnellaggio, tra cui diverse unita a vapore. Un primo record fu raggiunto nel ’18 con il varo della Ferdinando I, la prima nave a vapore del regno, considerato il più grande e potente piroscafo del Mediterraneo, superiore ai pacchetti francesi “Enrico IV” e ” Sully“, 80 cavalli di potenza contro 120, e di gran lunga più veloce del genovese “Maria Luisa” più piccolo, la cui macchina toccava appena i 25 cavalli. Fu anche il primo al mondo a navigare     per mare e non su acque interne, l’Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per vararne uno, il   Monkey, nel 1822. Nel 1847 altro primato, fu introdotta per la prima volta in Italia la propulsione ad elica con la nave Giglio delle Onde. Sempre a Napoli, dopo l’unità d’Italia, furono realizzate le corazzate Duilio (1876) e Italia (1880), vero vanto della neonata marina del regno d’Italia. La flotta delle due Sicilie fu anche la prima a collegare l’Italia con l’America ed il Pacifico.

Con l’avvento del nuovo regno d’Italia, il vento cambiò direzione, una politica dissennata e totalmente a favore delle industrie del settentrione, mise definitivamente prima in difficoltà e poi in crisi l’intero patrimonio industriale e di risorse accumulato. Nel 1861, l’ingegner Sebastiano Grandis, incaricato da Torino di stendere una relazione su Pietrarsa, curiosamente ne esagerò i difetti, magnificando invece i pregi dell’Ansaldo di Genova che vantava, una certa benemerenza politica risorgimentale, dovuta al contributo dato di nascosto, nella spedizione dei Garibaldini, fornendo loro l’armamentario. Così dopo l’unificazione del paese, delle 600 locomotive necessarie alle neo-costituite linee ferroviarie del Sud, solo un centinaio fu appaltato a Pietrarsa.

Nel 1863 in seguito a gravi incidenti a Pietrarsa l’azienda venne affidata in concessione ad un imprenditore toscano che ridusse i salari, aumentò l’orario giornaliero da 10 a 11 ore e mantenne in servizio poco più della metà degli 800 operai. Nei disordini e scontri di quei giorni, si contarono 7 operai uccisi e 20 feriti dai bersaglieri intervenuti a sedare la “sommossa”.

La politica del nuovo regno fece il resto: un’assurda ed eccessiva serie di norme protezionistiche ne limitò  le esportazioni, l’affarismo rampante ed in molti casi scatenato di molti politici interessati o coinvolti indirettamente nelle aziende settentrionali, limitarono, quando non esclusero Pietrarsa dalle molte commesse statali. In più il neo costituito regno, viste le difficoltà finanziarie disastrose in cui versava, non riusciva a finanziare che una parte limitata della spesa pubblica. Le difficoltà creditizie per le industrie si fecero insostenibili, il commercio frenò, il settore delle costruzioni navali gradualmente rallentò. La scarsità di apporti di capitale finanziario e la mancanza di un sistema creditizio solido, fu una delle cause principali    del declino del polo. La miopia politica, la paralizzante situazione daziaria, le dimensioni quantitative contenute delle aziende, comportarono nel giro di qualche decennio l’inevitabile declino di tutto il mezzogiorno a favore del nord del paese.

Nel 1885 l’esercizio della rete nazionale delle ferrovie fu affidata a tre società: Adriatica, Mediterranea e Sicula, tutte a capitale settentrionale; tutte ebbero i loro centri tecnici e direzionali nel nord ed accentrarono le commesse e gli acquisti di materiale rotabile e d’ogni altro genere al nord o importandolo dall’Inghilterra.

Sempre nello stesso anno Pietrarsa, dopo vari passaggi di proprietà, fu declassata a officina di riparazione e nel 1900 subì un ulteriore rapido calo per via della crisi congiunturale, nonostante la rete ferroviaria avesse raggiunto i 16 mila chilometri. Gli impianti furono adibiti esclusivamente alla riparazione di locomotive e caldaie, come avverrà anche dopo il 1905, con il passaggio dell’azienda alle FS.

Pietrarsa ufficialmente cessò di esistere il 20 dicembre 1975. Nell’unico padiglione ancora aperto, sede di un museo ferroviario, sono esposte alcune ricostruzioni di locomotive dell’epoca, unica testimonianza di una serie di primati e record storici raggiunti da quella che fu una delle più belle ma poco note pagine, della nostra storia nazionale.

Salvatore  Ferrara

da: http://www.ilnord.com/2010/11/17/il-triangolo-industriale…

Il triangolo industriale di Pietrarsa: storie di record e primati dimenticati.ultima modifica: 2010-11-22T22:39:42+01:00da tonyan1
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